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Il male fatto in modo attivo e quello passivo sono uguali?

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Il male fatto in modo attivo e quello passivo sono uguali?

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neuroscienze - 04/12/11

Gli individui e i tribunali trattano con più durezza le persone che fanno attivamente del male, rispetto a quelle che omettono d'intervenire perché ciò accada. Un nuovo studio trova che tale distinzione morale è automatica. È necessario uno sforzo mentale cosciente per arrivare a valutare un danno fatto di proposito equivalente a quello di omissione.

La differenza è addirittura codificata dai vari codici penali. Un nuovo studio basato sul cerebral imaging rivela però che la distinzione è effettuata psicologicamente in modo automatico. È necessario uno sforzo cosciente, dicono i ricercatori, per decidere che il male fatto in modo attivo e in modo passivo sono la stessa cosa.

Ad esempio, un pattinatore sul ghiaccio in un caso allenta di proposito la lama sul pattino dell'avversario oppure, in un altro caso, nota che la lama è allentata ma non avvisa nessuno. In entrambi i casi l'avversario perde la gara, cade rovinosamente e si ferisce in modo grave. All'atto pratico, il danno arrecato è lo stesso.

La neurologia dei dilemmi etici


F. Cushman, psicologo alla Brown University, si è servito di compiti comportamentali, inchieste online e risonanza magnetica funzionale per cercare di capire come si è evoluto il cervello per trattare i dilemmi morali e risolvere i dilemmi etici.

"Quando vediamo qualcuno fare del male attivamente a un'altra persona, scatta in noi una risposta forte e automatica", dice l'autore. "Non è necessario pensarci in modo volontario. Quando invece assistiamo a un'omissione d'intervento affinché un danno abbia luogo, i processi di pensiero che portano a decidere che si tratta di un atto sbagliato sono più lunghi e tortuosi".

In uno studio pubblicato nella rivista Social Cognitive and Affective Neuroscience, Cushman e coautori hanno presentato a dei volontari 24 dilemmi etici come quello del pattinatore. Entro una durata temporale specifica i partecipanti leggevano un'introduzione sull'incidente, una descrizione delle scelte morali dei personaggi e una descrizione di come i personaggi si comportavano. Dopo, dovevano valutare su una scala da 1 a 5 il loro grado di scorrettezza morale. Nel frattempo, gli sperimentatori monitoravano il flusso sanguigno nel cervello dei partecipanti tramite una macchina per risonanza magnetica.

Cushman si aspettava di veder confermati i risultati già da lui pubblicati nel 2006: le persone devono servirsi del ragionamento consapevole per arrivare alla sensazione che nuocere di proposito a qualcuno in modo volontario è moralmente peggiore che permettere per omissione che il danno accada. Nel nuovo studio il team di ricercatori si è servito dell'avanzata tecnologia messa a disposizione dalla risonanza magnetica, dando per scontato che coloro che avessero individuato differenze morali lo avrebbero fatto attraverso il ragionamento. Pertanto, tali soggetti avrebbero mostrato un'attività più intensa nelle regioni della corteccia prefrontale dorsolaterale, rispetto a quelli che non avessero ravvisato alcuna differenza. Con estrema sorpresa, invece, i livelli più alti di attività sono stati rivelati nei cervelli dei soggetti che non vedevano differenza fra il male inflitto in modo volontario e quello passivo.

"Le persone che hanno riportato la distinzione sono quelle nelle quali sono stati misurati i minori indizi di pensiero deliberato, attento e controllato", dice l'autore, "mentre le persone che non hanno riportato tale distinzione hanno fatto rilevare la maggior intensità di pensiero deliberato".

In sostanza, tutto ciò sembrerebbe indicare che l'evidenziare distinzioni sarebbe un atto automatico, mentre il non evidenziarlo sarebbe frutto di un processo consapevole.

Giudizio sociale


Cushman precisa che la sua ricerca non suggerisce quale dei due giudizi morali sia quello più "giusto". Ma è un fatto che molti sistemi giuridici si basano sulla convinzione che il danno attivo sia peggiore di quello passivo.

Un esempio è offerto da una decisione della Corte Suprema americana del 1997, che stabilì che anche ricevendo il permesso del paziente all'eutanasia, il medico non può eseguirla, ad esempio attraverso un'overdose di morfina. Tuttavia, il medico può seguire le indicazioni del paziente a far cessare il supporto vitale o altri tipi di trattamento. In quel caso, il verdetto del tribunale di 1° grado di New York e la Corte Suprema alla fine del processo decisero che le due cose erano diverse, ma la Corte d'Appello al 2° grado fu di parere contrario e stabilì che si trattava della stessa cosa.

Cushman sostiene che i suoi risultati potrebbero aiutarci a comprendere i meccanismi attraverso i quali arriviamo a formulare il giudizio morale, come individui e come società.

Bibliografia:

F. Cushman et al. 2011. Are doing harm and allowing harm equivalent? Ask fMRI. Brown University.
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