Quanto ti fidi di te stesso? L'importanza di ascoltare la pancia

psicoterapia - 07/03/22

Giovanni è un commercialista 50enne, venuto da me per un problema nel rapportarsi con le altre persone nella sua professione.

Se devi prendere una decisione, puoi basarti sulla razionalità, sulle tue convinzioni, oppure puoi basarti sulle tue sensazioni, sul tuo intuito.

Ma spesso non hai informazioni sufficienti e quindi non puoi basarti sulla ragione. In questi casi, quanto sei capace di affidarti solo alle tue sensazioni?


In altre parole, quanto ti fidi di te stesso?

Dopo tanti anni di lavoro ha ormai raggiunto una posizione che gli permetterebbe comodamente di tirare i remi in barca, andarsene in pensione e dedicarsi solo ai suoi hobby.

C'è solo un piccolo problema: non ha alcun hobby.

Giovanni ha vissuto praticamente solo per il lavoro, il lavoro è la sua vita e andare in pensione, per chi ha sempre lavorato con passione, coincide con la fine della vita.

Perciò l'ideale di pensione per Giovanni è non andarci mai: passare il limite dell'età pensionabile e continuare come se nulla fosse.

Lui è un professionista e come tale tiene molto all'idea che gli altri hanno di lui come persona competente e affidabile.

Perciò cerca di dare il massimo e infatti i risultati che ottiene parlano da soli: è un professionista molto stimato.

C'è però anche il rovescio della medaglia.

Giovanni è una persona molto analitica e rigorosa e del resto lavora con numeri, bilanci e situazioni patrimoniali, quindi deve esserlo.

Ma come spesso succede in questi casi, il rigore scivola nella rigidità. Al punto che Giovanni non si sente mai contento dei risultati che ottiene.

In particolare, non è mai davvero soddisfatto del modo in cui appare agli altri.

Quando si presenta alle riunioni, magari di fronte a qualche giudice o curatore fallimentare, torna sempre a casa con l'impressione che avrebbe potuto fare di meglio, che la sua presentazione poteva essere più convincente e che l'impressione che gli altri hanno ricevuto da lui poteva essere migliore.

In altre parole, Giovanni è così ossessivamente attento a questi aspetti da sprecare un sacco di fatica emotiva, che poi lo lascia esausto.

Dopo averlo ascoltato in prima seduta, gli assegno il primo compito: fare dei piccoli errori in modo volontario.

Per le due settimane successive dovrà cercare di sbagliare volontariamente qualche dettaglio nelle sue presentazioni. Niente di grave o che produca conseguenze importanti, ma sufficiente a fargli sentire, dentro di sé, il morso dell'ossessività che ti dice: "Non va bene!"

Siccome la qualità della relazione terapeutica che si è stabilita fra me e Giovanni è buona, dichiara che farà quanto gli sto chiedendo di fare, anche se il suo comportamento non verbale mi fa capire che non è convinto proprio al 100%.

Dopo due settimane, Giovanni ritorna da me e sentendosi molto meglio. L'ansia da prestazione che lo tormentava è molto diminuita. Ha fatto come gli ho suggerito e qualche volta i suoi errori sono stati persino notati dagli altri.

Ma siccome per definizione non dovevano essere errori gravi, non è successo nulla di male.

Perciò mi complimento con Giovanni per l'ottimo lavoro svolto e alla fine della seconda seduta gli assegno un nuovo compito: per mezz'ora, ogni giorno, dovrà farsi un film mentale immaginando di fare gli errori più stupidi e grossolani che gli verrano in mente, stavolta errori gravi, ma che ovviamente non dovrà mettere in pratica.

Dovrà solo meditare nel modo più emotivamente carico possibile sulle possibili conseguenze di questi errori: il giudice che lo redarguisce, gli altri professionisti che ridono di lui, qualcuno che si alza e se ne va per non assistere al pietoso spettacolo.

Allora Giovanni mi fa una confidenza.

"Sa, dottore, quando la volta scorsa mi ha detto di fare apposta degli errori, da una parte ho pensato che mi sarebbe costato fatica, ma dall'altra ho avuto una sensazione positiva, qui nella pancia, che mi diceva che questa era davvero la strada giusta".

"E oggi, che mi sta suggerendo di immaginare di fare errori ancora peggiori, con annesse conseguenze, questa sensazione è ancora più forte. Forse sarà più forte anche il fastidio che proverò, ma mi fido di questa sensazione. La prima volta ha funzionato e quindi so che funzionerà anche stavolta".

E infatti, alla terza seduta Giovanni torna avendo compiuto alla perfezione anche la seconda missione e il suo stato emotivo è migliorato ancora.

"Dottore, era quello che mi ci voleva. Ho fatto bene a fidarmi della mia sensazione. L'ansia da prestazione è sparita e adesso mi sento molto più equilibrato quando sono in riunione con gli altri professionisti. Non ho più questa smania di dover dimostrare quanto valgo."

Si potrebbe discutere se Giovanni si sia affidato più alla sua vocina nella pancia, o più a me, per merito della buona relazione che si era stabilita fin dall'inizio.

Ma in realtà non ha importanza, perché anche se si fosse affidato a me, lo avrebbe fatto pur sempre in base a delle sensazioni, perché non poteva avere informazioni certe su di me, dato che ci stavamo appena conoscendo. E quindi la decisione di affidarsi non è stata una decisione razionale.

In realtà poi lo è stata, perché anche le emozioni hanno le loro ragioni. Che spesso sono più forti del raziocinio, dato che si sono evolute molto tempo prima.

Quando soffri d'ansia, questa emozione finisce spesso per sovrastare tutte le altre e quindi puoi avere difficoltà a percepirle, essendo più sottili e normali.

Quindi, una delle cose più importanti che molte persone perfezioniste e preoccupate devono imparare è a fidarsi di nuovo delle sensazioni sane._

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