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Quanto può dire di sé uno psicoterapeuta al proprio paziente?

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Quanto può dire di sé uno psicoterapeuta al proprio paziente?

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psicoterapia - 23/05/22

Stai andando in terapia e a un certo punto, durante una seduta, il terapeuta inizia a raccontarti un episodio della sua vita personale.

"Ma non ero venuto qui per parlare di me?" ti chiedi. "Come mai il terapeuta mi sta dicendo questo?"



Domanda più che legittima, solo che la risposta non può essere breve e secca, perché poggia su almeno tre presupposti diversi.

Primo presupposto: l'orientamento teorico del terapeuta


Il primo di questi presupposti riguarda l'approccio usato dal terapeuta, cioè l'orientamento terapeutico su cui si basa il metodo da lui usato.

In alcuni di questi approcci, specie più tradizionali, il terapeuta rivela  pochi dettagli o nessuno della propria vita personale. Il setting terapeutico è rigidamente standardizzato e predeterminato quanto a durata, frequenza delle sedute, modo di condurle e quindi anche riguardo alla relazione terapeutica, ci si dà del "lei" ecc.

In questi casi sarà molto raro che tu senta dire al terapeuta: "Questo mi ricorda una volta in cui mi padre mi disse...". In queste terapie la priorità andrà probabilmente a tecniche di tipo proiettivo, come ad esempio l'uso deliberato di silenzi prolungati. Il silenzio, quando due stanno l'uno di fronte all'altro, può generare ansia e quindi il desiderio di alleviarla... rompendolo.

Perciò vorrai parlare. E guarda caso, parlerai di cosa? Di quello che hai in testa tu. E di come magari stai vivendo la relazione fra te e il terapeuta in quel momento: "Dottore, questo silenzio mi sta lasciando a disagio".

E il terapeuta, invece di rispondere alla tua domanda, ti risponde con un'altra domanda: "Ah, quindi ti senti a disagio?" Oppure: "Parlami di questo disagio".

E così la palla ritorna a te.

Che può anche funzionare, per farti parlare, intendiamoci. Ma è un metodo che se usato in modo pesante può risultare indisponente. Specie se non sei una persona che parla di sé con facilità.

In altri approcci come quello breve strategico, il setting è invece apparentemente molto più informale. "Apparentemente" perché una forma c'è, ma è molto meno evidente.

Ad esempio, darsi del lei non è obbligatorio, durata e frequenza delle sedute sono variabili, entrambi possono parlare e ci può scappare persino l'occasionale battuta di spirito.

E il terapeuta può parlare di sé, può raccontare della propria storia ciò che ritiene più opportuno.

Secondo presupposto: l'intenzione del terapeuta


Ma anche la self-disclosure, cioè il parlare di sé, sottostà alla regola principe della terapia strategica: ogni azione del terapeuta, dalla più importante alla più insignificante, è volta strategicamente in direzione del risultato. Del risultato di tuo interesse.

Quindi, quando un terapeuta strategico ti dice qualcosa di sé, puoi star certo che lo sta facendo per un motivo.

Come in quel proverbio brasiliano: não dar ponto sem nó, cioè non fare niente per niente, senza uno scopo preciso.

Il solo fatto di rubarti la scena per un attimo, a te che sei il paziente, può rivelare diverse cose. Ad esempio quanto sei bisognoso di sentirti al centro della scena. Se appena il terapeuta inizia a raccontarti di "quella volta che..." tu inizi a sentirti nervoso, a far finta di annuire mostrando però impazienza, probabilmente hai delle criticità in quest'area.

Ma potrebbe essere, invece, che il terapeuta stia facendo una qualche analogia con un punto della tua storia per farti afferrare meglio un concetto.

Si tratta comunque di un atto strategico, che serve al terapeuta per capire meglio come aiutarti.

Dunque, l'intenzione è sempre di aiutare il proprio paziente, ma nei fatti tale intenzione può concretizzarsi in modi decisamente diversi, a seconda della teoria su cui si basa il terapeuta.

Terzo presupposto: errori del terapeuta


Il terzo e ultimo presupposto è che il terapeuta potrebbe aver commesso un errore puro e semplice, oppure - e la voglio tenere solo come semplice possibilità, augurandomi che non succeda mai - è lui in quel momento a sentirsi più vulnerabile dello stesso paziente e quindi bisognoso di aiuto.

Il terapeuta è un essere umano e può commettere errori.

Ma è pur sempre un professionista e come tale ti aspetti da lui che sia cosciente non solo del proprio livello di preparazione, ma del suo stato psichico del momento, cioè dovrebbe rendersi conto se è abbastanza in forma per aiutarti.

Altrimenti dovrebbe fare le correzioni del caso.

Supponiamo però che queste condizioni siano verificate e che il terapeuta, in perfetta buona fede, commetta un errore. Cioè ti racconti qualcosa di sé in modo non strategico, quindi neutro, non un'analogia riguardo alla tua storia, né qualsiasi altro elemento minimamente destabilizzante.

Ma che però a te dia fastidio. Cioè il solo fatto che lui te l'abbia raccontata, senza alcuna intenzione particolare, ti abbia dato fastidio.

In questo caso il terapeuta dovrebbe innanzitutto avere la sensibilità per captare da solo il tuo disagio. Ma se non ci dovesse riuscire, puoi sempre farlo presente tu.

"Dottore, lei mi ha raccontato questa cosa, e io mi sono sentito a disagio".

Non c'è nulla di male. L'invito è a non giudicare troppo ossessivamente l'intero operato di un terapeuta da un semplice episodio come questo. La valutazione di un intervento terapeutico va fatta su un arco temporale e di risultati un po' più ampio.

Anche un terapeuta può sbagliare come dicevo. L'importante è che risolva il tuo problema senza sbagliare troppo, e che sia capace di correggere gli eventuali errori._


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